Una storia particolare per farvi speranza...
Un anno fa. Dodici mesi in cui è cambiato tutto.
Perché 365 giorni fa, a quest'ora, stavo risalendo in macchina per riattraversare l'Italia, dopo essere scesa in Calabria solo quarantott'ore prima. In auto e da sola come d'abitudine, ma con in mano una speranza nuova: i documenti firmati dai miei genitori per presentare la pratica per adottare un bambino.
Il sogno di averne uno nostro si era infranto da tempo, anche prima che un dottore scrivesse “infertile” su un mio referto. Una gravidanza extrauterina, una tuba asportata, un secondo embrione troppo debole per resistere all'operazione, l'altra tuba da buttare. Ma il percorso fatto con i servizi sociali e la psicologa di un Comune in Umbria – che non ringrazieremo mai abbastanza -, invece, ci aveva regalato una nuova (anche questa) serenità.
Nostro figlio non avrebbe avuto il naso di Marco come sognavo da anni, ma sarebbe stato anche più nostro: voluto, cercato, aspettato.
Sarebbe stato difficile – di questo si dovrebbe occupare la politica, altro che fertility day e teorie gender -, difficilissimo anzi. Lungo, dispendioso e difficile.
Ma con Marco eravamo pronti. Anche ad andare in Polonia o Madagascar.
Ma nel frattempo un dottore, un chirurgo, uomo e padre, mi aveva detto «Hai una malformazione, ti possiamo operare». Dopo anni a sentirmi rotta, dopo anni di tentativi, accertamenti e interventi avevo solo una parola: accanimento. Il mio corpo era stanco, la mia testa anche di più. A tenermi lucida solo l'amore di Marco. Solo l'amore per Marco.
E un altro dottore, un amico, un confidente, vicino al cuore da due decenni, che mi ha detto «Dai, proviamoci, hai quasi 42 anni, non vivere con questo rimpianto».
Ho ascoltato questo dottore amico e mi sono affidata al bisturi di quel chirurgo. Che hanno avuto ragione. Perché quando la scienza ha fatto il suo ultimo e definitivo tentativo, il miracolo è avvenuto. Covato tra gioia e apprensione, elettricità e ansia, stupore e paure per nove mesi. Nel più completo silenzio. Abbiamo dovuto rinunciare alla pratica per l'adozione. Paolo è nato e ora proviamo a essere genitori decenti crescendo un “altro da noi”, come imparato dalle professioniste del corso comunale.
Perché raccontare tutto questo?, mi chiedono. È finita, è andata bene, perché devi pensare a tutto quello che avete passato?, mi dicono.
Perché dobbiamo ricordare da dove veniamo.
Ma soprattutto, devo raccontarlo per dare una speranza. Lo sento come un dovere morale.
Chi è nelle nostre (passate) condizioni, qualsiasi sia il motivo, deve sapere che tutto può cambiare. Che i miracoli possono anche accadere. Noi siamo stati fortunati ad avere accanto medici che ci hanno letto dentro. Siamo stati fortunati a incontrare professionisti che non si sono lasciati abbattere da una diagnosi e una statistica.
E il resto l'ha fatto l'amore, insieme alla fecondazione assistita, una ginecologa, una biologa, una provetta e un freezer. Che non sono Satana, ma piuttosto la prova che un Dio c'è in quello in cui credi. E noi abbiamo creduto allo studio, alla tecnica. Alla scienza.
E Paolo saprà quanto è prezioso, quanto è stato voluto, cercato, aspettato e “lottato”.
Anche con rabbia e disperazione ma infinito amore.
L'unica cosa che non si rompe mai.