La percentuale di successo di un percorso di fecondazione assistita si attesta intorno al 30%. Ovviamente ci sono vari fattori che pesano su questa percentuale, primo fra tutti l’età.
E’ ormai appurato che con l’avanzare del tempo, il numero e qualità di ovociti e spermatozoi può essere compromessa andando a inficiare l’esito dei trattamenti.
Oltre a questo, un’altra premessa affinché si possano avere più probabilità di andare incontro a un concepimento senza sprecare tentativi preziosi riguarda la Diagnosi Preimpianto (PGD o PGT - Preimplantation Genetic Diagnosis o Testing) finalizzata ad analizzare il DNA dell’embrione prodotto in vitro prima che questo venga trasferito in utero.
Con questa procedura si evita appunto di trasferire embrioni malati che non si impianterebbero comunque oppure, nel caso di attecchimento, potrebbero portare ad aborti precoci che, in pazienti di 40 anni sono intorno al 35%; con la diagnosi preimpianto la percentuale si riduce all’8%.
In Italia, la legge 40/2004 vietava l’accesso alla Diagnosi preimpianto alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche, ma riservava questa possibilità solo a chi ricorreva alla PMA in quanto infertile. Nel 2015 questo divieto venne abbattuto e oggi anche le coppie fertili portatrici di anomalie genetiche, possono accedere alla fecondazione assistita e alla diagnosi preimpianto.
Questo esame diventa fondamentale anche nei casi in cui una coppia ha sperimentato più transfer con esito negativo.
Dunque i campi di applicazione di tale tecnica sono:
L’analisi, che ha un’affidabilità del 99%, può essere effettuata allo stadio di blastocisti, cioè al 5°/6° giorno di sviluppo dell’embrione. Alcune cellule vengono prelevate tramite biopsia ed esaminate. Col trasferimento di embrioni sani, in media la percentuale di successo supera il 40%. Un dubbio riguardo la tecnica risiede nella questione del cosiddetto “mosaicismo embrionale”, termine col quale si descrive un fenomeno, quello per cui alcune cellule dell'embrione sono sane e altre presentano un'anomalia cromosomica. In questo caso non è detto dunque che questo tipo di embrioni si trasformeranno in feti malati. Essi infatti mentre si sviluppano, possono autocorreggersi, eliminando le cellule con anomalie cromosomiche.
Molte donne che dopo aver avuto un positivo in seguito a un transfer di blastocisti sottoposte a diagnosi preimpianto, quindi risultate sane, si chiedono se devono ricorrere anche a ulteriori esami come villocentesi, amniocentesi o quelli meno invasivi che analizzano DNA fetale: il consiglio che viene dato dai Centri è quello di effettuare uno di questi esami per conferma.
Il costo della diagnosi preimpianto non è incluso nel SSN e ha un costo che va dai 1.500 ai 3.000 euro e i centri pubblici che la offrono sono pochi. Al riguardo, alcune associazioni, tra cui l’Associazione Luca Coscioni, hanno fatto un appello al Ministro della Salute per chiedere che le tecniche di diagnosi preimpianto siano inserite nei Lea (livelli essenziali di assistenza). L’associazione denuncia i costi non sostenibili per le coppie e la mancanza di strutture pubbliche che se ne occupino.
a cura di www.natamamma.com per Conneggs
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