Lo avevamo già accennato nell’articolo PMA e gravidanza ai tempi del Coronavirus, la chiusura dei Centri che si occupano di Procreazione Medicalmente Assistita è stato un atto necessario, obbligato, dovuto all’emergenza che ormai tutti conosciamo bene.
Alcuni Centri durante l’emergenza sono stati convertiti in ospedali Covid dove si salvano vite, ma ovviamente la missione non risulta compatibile con le attività di un Centro PMA; altri durante la chiusura hanno fatto in modo di assistere i pazienti attraverso la tecnologia (Smart PMA).
Il blocco, ha rappresentato un duro colpo sia per le coppie che erano in procinto di iniziare un percorso, sia per quelle che ci erano dentro fino al collo, che erano in attesa di un transfer, che avevano già speso soldi per l’acquisto dei costosissimi farmaci, che erano pronte per partire verso una Clinica estera al fine di ovviare alle limitazioni ancora presenti in Italia (quelle ad esempio che vietano la PMA a single o coppie omosessuali), che avevano fatto esami, prelievi del sangue che molto probabilmente dovranno ripetere quando tutto questo sarà finito e le attività di Cliniche Private e Ospedali pubblici potranno riprendere.
Immaginiamo che tale ripresa avverrà con ritmi molto più lenti (ancora più lenti) di prima, le liste di attesa nel frattempo si saranno allungate a dismisura e con loro gli animi si esacerberanno. Questo perché si dovranno adottare maggiori cautele, nuove procedure operative, strumenti che consentiranno di agire in sicurezza, partendo ad esempio da una valutazione clinica preliminare.
Ovviamente per coloro che presenteranno una sintomatologia del virus non sarà possibile procedere con le terapie destinate alla fecondazione, ma saranno indirizzati verso strutture competenti.
Lavorare in sicurezza è un condicio sine qua non in quanto non si può rischiare di veder vanificato il sacrificio collettivo: un eventuale ritorno a numeri allarmanti di contagi potrebbe ulteriormente ritardare la ripresa delle attività dei centri.
Per questo la SIRU (Società Italiana della Riproduzione Umana) consiglia di “evitare gli spostamenti tra diverse regioni per ricorrere a trattamenti di Pma, che metterebbero a rischio i pazienti stessi e gli operatori. Sono numerose le coppie (circa il 30%) che ricorrono alla mobilità passiva, eseguendo i trattamenti in strutture fuori della propria regione, per cui si chiede di favorire l’accesso alle coppie nei centri, anche privati della propria regione, attraverso varie forme di sostegno economico rivolte alle stesse coppie. Questa soluzione contribuirebbe a superare il problema dei costi di mobilità passiva e delle liste di attesa che rischiano di accumulare ritardi di anni e diventare ingovernabili.”
Una proposta tanto valida, quanto difficile da concretizzare soprattutto perché se fino ad oggi la politica ha fatto ben poco per facilitare l’accesso alle pratiche di fecondazione (basta pensare anche alle differenze di offerta sia in termini di qualità e quantità che varia da regione a regione), dubito se ne occuperanno ora, in un momento in cui le priorità per il Paese sono altre.
La politica anche se distante dai bisogni di coloro che vorrebbero creare una famiglia, dovrebbe considerare però un aspetto che è stato messo a dura prova dalla chiusura generale di ogni tipo di prestazione non urgente. Si tratta del fatto che il blocco dei trattamenti di fecondazione (in Italia circa 8.000/mese) comporterà una perdita di, più o meno, 1.500 bambini nati, sempre su base mensile. Le nascite da fecondazione, considerando anche l’eterologa, rappresentano annualmente il 3,2% di tutti bambini nati in Italia.
E questo per un paese come il nostro caratterizzato dal fenomeno delle “Culle Vuote”, con un tasso di natalità che già in condizioni normali fatica a decollare per svariati motivi (ne abbiamo parlato in questo articolo), è grave.
L’Istat ha stimato che nel 2021 i nuovi nati saranno sotto la soglia dei 400mila, numero che si prevedeva di toccare non prima del 2032. Questo dovuto anche a un peggioramento delle condizioni economiche delle famiglie e dall’eventuale aumento del tasso di disoccupazione.
Il tempo è un bene prezioso e in questo percorso lo è ancor di più. Se il mondo intero si è fermato di fronte a un nemico per lo più sconosciuto, le lancette dell’orologio hanno continuato a girare. Pensiamo alle donne che sono in bilico con un’età tra il poter usufruire dei trattamenti in convenzione e il perdere questo diritto (esistono infatti limiti di età per l’accesso alle tecniche, stabiliti dai Livelli essenziali di assistenza nazionali, che vanno dai 43 ai 46 anni, e variano in base alle regioni), o coloro che già di partenza avevano una riserva ovarica bassa che col tempo si riduce ulteriormente o una condizione segnata da patologie che potrebbero peggiorare col passare delle settimane.
Quindi sì, l’urgenza di riattivare i Centri c’è, ma manca a quanto sembra, un’autorizzazione istituzionale, da parte del Governo, delle Regioni.
Qualche segnale dalla politica si è avuto con la proposta di prorogare di almeno sei mesi i limiti di età per l’accesso ai trattamenti: sarà sufficiente? Leggendo gli sfoghi online di molte donne sembrerebbe di no. Dai loro commenti si percepisce la disperazione per la paura di veder svanire ancora una volta le loro speranze, il sogno infrangersi contro un destino beffardo e burocrazia.
Le coppie non devono essere lasciate sole a vedere allontanarsi sempre più il loro progetto di genitorialità. Sono tra le persone che più di tutti hanno a cuore la risoluzione definitiva a questa pandemia che ha sconvolto gli equilibri di tutti noi.
Loro hanno una motivazione in più e la più forte in assoluto: loro hanno rispettato le regole perché devono essere forti, devono essere sani, perché quanto tutto questo sarà finito dovranno continuare a lottare contro un altro nemico (questa volta conosciuto): l’infertilità.
E devono correre veloci più del tempo che scorre inesorabile per andarsi a prendere quel pezzo di felicità che la natura ha negato loro.
Non lasciateli, non lasciateci soli.
A cura di www.natamamma.com